Ël Canton ëd Parin, il ristorante fondato dal cuoco di don Bosco
Ho già avuto occasione di soffermarmi sulle pagine di questo giornale sulla storia di diverse antiche botteghe torinesi, con un trascorso ultrasecolare: in genere si è trattato, almeno originariamente, di piccoli negozi di vicinato o laboratori artigiani, che hanno saputo mettersi in luce per i loro prodotti di particolare qualità, conquistando via via una crescente notorietà, che è spesso debordata oltre i confini della città. Ho ricordato storici pastifici, cremerie, latterie, torrefazioni, caffè, laboratori di maîtres chocolatiers, le cui insegne e i cui marchi hanno nel tempo meritato una fama leggendaria. Mi sono tuttavia reso conto di non essermi ancora soffermato a ripercorre il lungo e glorioso passato di alcuni storici ristoranti torinesi: storie che nondimeno meritano di essere raccontate. Ho allora pensato di dedicare questo mio articolo ad uno di questi locali: un ristorante di cui, lo ammetto, avevo sì già sentito parlare, ma in cui io stesso non ero mai entrato, almeno fino a qualche giorno fa.
Mi ci hanno portato alcuni amici, e ne sono rimasto letteralmente conquistato. Sto parlando de “Ël Canton ëd Parin”, ovvero de ”L’Angolo di Parin”, di via Bernardino Galliari 29, all’angolo con via Ormea, a Torino.
Sono stato letteralmente conquistato dall’ambiente e dagli arredi, innanzitutto, e poi – ovviamente – dalle portate e dall’impeccabile servizio. Ma soprattutto dalla tipicità regionale dei piatti che contraddistinguono questo locale. L’impatto che si prova nell’entrarci la prima volta, è di stupore e meraviglia. È come catapultarsi nel set di un film, allestito con scrupolosa ricostruzione (ma qui è tutto autentico!), per ricreare un realistico contesto della Belle Époque. Specchiere dorate, il bancone in legno massiccio, i tavoli della nonna dalle gambe tornite, i dipinti d’epoca, alcuni con ammiccanti donne nude, dallo sguardo vagamente lascivo, mai inverecondo, però; i divani, foderati di velluto consunto, le lanterne e i lampadari di cristallo, le suppellettili e gli oggetti in stile liberty. E poi, quella vecchia foto gigante, con i camerieri in smoking, con le candide camicie con il faux col inamidato e il papillon, i corpetti attillati, con gli orologi da taschino di cui s’intravedono le catenelle, e l’impeccabile faudalin, fresco di bucato, a proteggere i pantaloni stirati di tutto punto, con i capelli ben pettinati e tirati a lucido, con la riga di lato, e gli immancabili baffoni a manubrio sulle labbra socchiuse; e le graziose cameriere con le chiome raccolte con gli spilloni.
Un po’ boudoir, un po’ salotto di Nonna Speranza, con quegli specchi in parte consumati dal tempo, in cui ci si stupisce di vedere riflessa la propria immagine, abbigliata con abiti non allineati con la moda dell’epoca rievocata dall’ambiente e dagli arredi. E poi il nome delle Sale, rigorosamente in piemontese: come la “Sala Le bele fomne”, dove pare potervi intravedere Gozzano a contemplare, sornione, donnine aggraziate, nell’atto di sfilarsi i bianchi guanti di seta e la civettuola veletta per lanciarsi a degustare una ghiotta portata.
Il menù è bilingue: italiano da un lato e piemontese dall’altro. Un piemontese perfetto, dove non sfugge né un minimo accento o un apostrofo, un trattino, né una dieresi sulle “ë” quando questa ci vuole: ogni parola scaturisce da un lessico perfetto, che solo un piemontesista appassionato ed esperto sa utilizzare. Chissà chi è colui che ha scritto quel menù con tanta cura. Peccato non averlo domandato al titolare, che si chiama Massimo Bonavero: si è presentato al nostro tavolo vestito da cuoco, con un affabile sorriso di benvenuto, insieme alla moglie Luisa Giambartolomei (perfetta, elegante e cordiale nel farci gli onori di casa).
Qui da ‘Parin’ – ci ha spiegato Luisa – la tradizione familiare per la cucina piemontese inizia con Giovanni Suppo, detto Parin; così, dalla fine dell’800 ad oggi, la passione culinaria si è trasmessa di generazione in generazione fino a Massimo Bonavero, mio marito, che del locale è cuoco e patron”.
La signora Luisa ha poi aggiunto altre curiose spigolature sul locale: “Suppo fu anche il cuoco preferito di don Bosco: il grande santo, cui non difettava il senso dell’humor, giocando con il suo cognome, lo chiamava scherzosamente Supa ’d pan bagnà. Il nostro locale venne poi assunto dalla nipote di Parin, la signora Maria, che proprio qui, ma con accesso dalla Via Ormea, pensò di gestire una gastronomia”.
Uno slogan del ristorante recita così: “la qualità qui è di casa”. Io aggiungerei: ed anche il gusto e l’arte della presentazione dei piatti. Davvero deliziose alla vista, e gustose al palato, sono risultate le portate serviteci in tavola, dagli antipasti (ghiottissima la toma d’alpeggio tagliata a fette sottili, irrorata da un filo d’olio extravergine e spruzzata di pepe) al dolce (che delizia il bonèt!). Tra i secondi, ho trovato eccezionale il cotechino, servito con un puré delicatissimo. Irrinunciabili, i caponèt, così come la mitica “grissinopoli”, una copiosa bistecca tagliata al momento ed impanata, anziché nel pan grattugiato, pensate un po’, nei grissini sbriciolati, prima di essere fritta in un olio delicato.
Mentre una graziosa cameriera ci serve gli antipasti, la signora Luisa conclude: “Il servizio del pranzo è pensato in modo molto più informale di quello della cena, più ricco e con un menù molto più ampio”, e poi si allontana augurandoci buon appetito.
Sì, Ël Canton ëd Parin, val bene un pranzo o una cena. Anche il prezzo è appetibile. Peccato non averlo scoperto prima questo locale. Ci tornerò e ci porterò degli amici. Andateci anche voi.
Sergio Donna di Monginevro Cultura, Associazione Piemontese
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